Editoriale di don Andrea

C'era una volta una bellissima imbarcazione, costruita da maestri d’ascia eccezionali. Era stata progettata per sfruttare al massimo la forza del vento e, quando navigava, era così veloce che quasi si sollevava sul pelo dell’acqua. Era ammirata da tutti con il suo maestoso albero maestro e in molti, sul mare di Tiberiade, non vedevano l’ora di poterla provare. Il proprietario era un ricco armatore della zona e l’aveva fatta costruire solo per sfizio, senza nessuna utilità pratica, solo per mostrare a tutti di cosa erano capaci i suoi costruttori. Era da tutti considerata la barca più veloce mai vista al mondo.

Poi passarono gli anni, ci fu l’occupazione dell’Impero Romano e i problemi da dover affrontare erano ben altri rispetto alla spensieratezza delle gare di velocità. Fu tratta in secco e abbandonata. La barca divenne triste. Nessuno badava più a lei. Ma il peggio doveva ancora venire. Il suo padrone la vendette a un pescatore per pochi denari. Qualcuno dice trenta. Il pescatore non aveva bisogno della velocità. Smontò gran parte della povera barca, compreso l’albero maestro. Tra sofferenze indicibili, sotto i colpi dei martelli e delle asce di operai non propriamente esperti, vedeva via via sparire la sua linea slanciata e la sua leggerezza.

L’albero maestro, realizzato con un legno pregiato, molto resistente, fu requisito da alcuni soldati. Si chiedeva cosa se ne facessero dei rozzi soldati romani di un legno così importante. I pescatori costruirono un riparo a prua e il timone venne appesantito al fine di essere più robusto e più adeguato per manovre lente e quotidiane. La barca era sempre più triste. Era ridotta a una semplice barca da pesca e puzzava dell’odore tipico delle barche usate dai pescatori. Non viveva più le gioie delle gare di un tempo, con il cuore che le batteva forte quando volava sopra le onde, leggera e veloce. Ormai si aspettava un destino di vecchiaia e di fatica, sotto il sole rovente, a trasportare carichi maleodoranti e pescatori grezzi e poco delicati.

Un giorno, però, accadde qualcosa di strano. Assieme ai pescatori salì un uomo che non aveva mai visto prima ma che le lasciò la strana sensazione di averlo già visto, come se lo conoscesse da sempre. Partirono per una traversata, ma lei sapeva che non sarebbe stata una giornata come le altre. Il tempo era brutto e non prometteva nulla di buono. Nel bel mezzo del lago scoppiò una tempesta tremenda. A causa della sua pesantezza iniziò a imbarcare acqua. "Se fossi stata quella di una volta" - pensò - "sarei stata così leggera e veloce da volare sull’acqua e sarei sfuggita alla tempesta in un attimo". Ma ora, con tutto il suo peso, non riusciva a fare altro che ingoiare acqua fredda e nemica. Tutti a bordo parevano impazziti, si agitavano e cercavano di buttar fuori acqua come potevano. Ma le onde erano troppo alte. Non c’era nulla da fare. Si vedeva già sul fondo, come tante altre povere barche, a marcire lentamente, divorata dalle alghe e dai pesci.

Poi, improvvisamente, la tempesta cessò. Il giovane uomo gridò al vento e lo fece cessare. Non aveva mai visto nulla di simile. A tempesta sedata, il giovane uomo accarezzò il suo scafo e le disse: "Brava barchetta, hai saputo fare bene il tuo dovere!". Nessuno le aveva mai parlato così. Pensava di essere inutile e invece qualcuno aveva saputo apprezzarla. Si era sentita amata e apprezzata ancora più di quando era giovane, bella, veloce e leggera.

Quel giorno la barca capì una cosa importante: che l’amore non è solo gioia. Che nella vita le sofferenze servono sempre a qualcosa anche se al momento non le capiamo. Da allora visse con più fiducia, sapendo che quell’uomo un giorno lo avrebbe certamente reincontrato. Era il suo cuore che glielo suggeriva. Le restava una sola domanda: cosa ne avrebbero fatto del suo albero maestro?

Aerdna Ocorrap